domenica 18 agosto 2019

Riflessi e speculazioni di un Dilemma Notturno


I lampioni fuori illuminavano una strada deserta fatta di luci gialle e calde, quasi come se volessero dare vita a quelle ore di tarda notte. Le finestre dei vari appartamenti erano ben salde, senza illuminazione alcuna e soprattutto in un fracassante silenzio da infastidire chiunque ci si fosse focalizzato. Nulla era più vivo, tranne il cane randagio che viveva in fondo alla strada, grosso e bianco da essere soprannominato Belle, come il protagonista di Belle e Sébastien, che annoverava tra le sue fila dei preziosissimi ossi di pollo. Spesso li trovava in giro, soprattutto nei pressi dei cassoni della spazzatura, altre volte qualche buon’anima del vicoletto che gli lasciava i suoi resti di cibo, che Belle in poco tempo ripuliva in modo più unico che raro e poi li conservava nella sua tana. Ogni qualvolta vedeva due fari correre sulla strada principale, si nascondeva dietro alcune auto pronto a uscire improvvisamente per spaventare i giovani alla guida; non passavano tante auto verso quell’ora della notte, ma quelle poche bastavano per adempiere ai suoi hobby. Adagio, il cane dopo un paio di giri su sé stesso decise che era il caso di appisolarsi nel suo posto preferito: sotto le scale del vecchio municipio che davano un buon riparo dalla pioggia, che proprio in quel momento iniziò a cadere, colpendo il naso umido di Belle spaventandolo. Scrollo il capo per il fastidio e si accucciolò nella sua piccola tana, appoggiando il suo malinconico muso sulle zampe anteriori, sbuffando teneramente e provando a chiudere i suoi occhi pieni di tristezza; essere abbandonato da chi ami così tanto può ridurre il tuo cuore ad un cumulo di massa morbida, tanto quanto un budino, capace di provare emozioni fuori dall’ordinario, raggiungendo nuovi livelli di consapevolezza e profondità del proprio essere.



Il fumo della sigaretta danzava nelle tenebre dove una luce tremula e fioca provava imperterrita a scacciare l’oscurità, non tanto potente da eliminarla, ma abbastanza coraggiosa da provarci. Era un ambiente dall’atmosfera surreale, come se si trovasse in un altro universo, un altro pianeta, un’altra realtà: in quella stanza si sentiva la pesantezza di un mondo parallelo pronto a collassare su sé stesso da un momento all’altro. Forse era già accaduto, o forse era ancora troppo lontano dall’accadere, ma l’uomo che fino a poco fa boccheggiava quella sua sigaretta, decise di interrompere questo suo pensiero e dedicarsi a ben altro. La stanza era piena della sua mancanza. Se n’era andata via come una fiammella in preda ad una bufera, lasciando un fumo fatto di ricordi. L’uomo, mentre si puliva il trucco dal viso e poggiava sulla scrivania il suo enorme naso rosso, pensò che non potesse poi biasimarla: si trascinavano lungo questa vita come due perfetti estranei, anche se non si aspettava di vedere quel rancore. Ogni volta che si focalizzava a vedere quello squallido monolocale, sentiva il suo profumo, così come quando osservava la finestra gli si piazzavano davanti agli occhi le immagini di lei che la valicava, noncurante delle conseguenze. Accese un’altra sigaretta, sperando che il fumo del tabacco e l’odore della nicotina potessero cancellare il suo profumo. Ma non ci riuscì, nemmeno quella volta. Appoggiò le gambe sulla scrivania, chiuse gli occhi ancora sporchi di trucco bianco e sospirò. Silenzio.
   <<Dove sei? Perché sei andata via?>> una voce brulicava da ogni direzione, dal tono pacato ma triste.
   <<Non posso più vivere senza di te, non riesco a lottare contro questa vita senza il tuo aiuto>> continuò, facendo sentire sprazzi di disperazione nel suo tono di voce.
   <<Ti dicono tutti di lottare, di non mollare mai. Incessantemente. Fin da bambini siamo assediati da messaggi eroici ed epici o immagini che vedono colui che lotta come il vincitore, che si nutre delle carni del proprio nemico così da attingere a nuova forza e potere>>, disse questa voce misteriosa proveniente dal nulla.
   <<Si tratta di una retorica molto spicciola, che nasconde dietro la sua filosofia un desiderio ardente e cannibale, alimentando quell’illusione post-moderna del volersi realizzare e diventare qualcuno, quasi come uno specchio che riflette il proprio essere dalle realtà che viviamo quotidianamente, ossia le deformità che rappresentano la nostra vita>>.
   <<Alla fine siamo terrorizzati dal nostro stesso handicap, se così vogliamo definirlo, feriti nell’orgoglio e costretti ad avanzare faticosamente sfruttando stampelle emotive anche abbastanza precarie, soltanto perché avvolti dall’illusione che questa eterna lotta contro chissà quale fatidico male potrebbe elevarci a sentirci qualcuno che non indossa una maschera. Uno scenario distopico, perfetta cornice di un'epica serie di stronzate>>.
  
<<Lottare, lottare e sempre lottare, anche se non ce né veramente bisogno, perché tanto è stato inculcato dalle società che ci determinano e che decidono chi siamo. Non ci danno più la possibilità di apprezzare il dolore e farlo nostro. Il dolore viene negato attraverso tutta una serie di paraculate estreme, come i giochi della mente, frasi fatte e altre speranze eteree. La verità è che noi non abbiamo più la libertà di essere chi siamo davvero, perché ormai è troppo pericoloso e quindi lottiamo per non essere ciò che siamo. Ormai il dolore è divenuto un mezzo, per l’uomo moderno, soltanto per risvegliare la propria coscienza assopita e quindi ha perso il suo reale valore. Il dolore è proprio l’essenza della lotta, ma non Uomo contro qualcosa, ma di una lotta verso sé stesso capace di zittire tutte le deformità della nostra esistenza. E poi ci eleviamo a uomini di plastica, perfettamente omogenei, senz’anima, senza retorica, senza sapienza. Me ne sono andata perché tu non avevi più bisogno di me, ma di costumi>>, terminò la voce, elevando il suo monologo a qualcosa di più etereo.
   <<Ho capito, ho finalmente cap…>>, la sigaretta, ormai terminata, gli aveva bruciato le dita facendo sussultare l’uomo che, in preda ai pensieri, si era appisolato. La spense schiacciandola nel posacenere con un movimento circolatorio, facendo sì che gli ultimi sprazzi di nicotina si concedessero all’aria con un fumo più denso e voluminoso, prima di scomparire completamente. Decise di vestirsi e uscire, nel cuore della notte e con pioggia avversa, noncurante delle conseguenze. Lo Spaventapasseri lo chiamava, così come anche Tenebra, l’uomo elegante e Cosmo, il pagliaccio, ma lui non si preoccupò di dargli troppo ascolto e decise di uscire, senza volto, senza personalità, pronto a ritrovare colei che aveva perso: la sua anima.

La pioggia scrosciante rendeva il vicoletto ancora più cupo e surreale, soprattutto perché dai tombini fuoriusciva l’acqua in eccesso. Belle era nella sua tana ad osservare la strada, cercando di dormire anche se la pioggia iniziava a dargli molto fastidio: non riusciva a prendere il sonno tra le mani e il freddo della notte l’aveva ormai avvolto dentro di sé. Da lontano vide arrivare un uomo incappucciato, ma non riusciva a riconoscerlo, così alza la testa e punta le orecchie per concentrarsi, ma nulla, proprio non lo riconosceva. L’uomo si sedette esattamente sopra le scale che facevano da tettuccio alla tana di Belle, si coperse con un ombrello e si accese l’ennesima sigaretta, noncurante della presenza del cane poco più sotto, che, con un movimento sinuoso e lento, si avvicinò di più per captarne al meglio gli odori. L’uomo continuava a fumare la sua sigaretta senza proferire parola, guardando il folle cielo pieno di stelle e di nuvole più scure della notte. Belle si avvicinò a tal punto da rimanere coperto dal suo ombrello e si sedette al suo fianco, colpendolo con la zampa per attirare la sua attenzione.
   <<Ciao Belle, cucciolone, come stai?>>, disse l’uomo senza mostrare il suo viso. <<Non mi riconosci? Belle, sono io…>>, ma il cane continuava ad essere poco sicuro ed evitava con movimenti quasi paranormali le carezze dell’uomo. Voleva capire chi fosse.
   <<Non mi riconosci perché ora sono veramente io…>>, continuò boccheggiando quella sua sigaretta, ormai terminata. Il povero cane non capiva cosa stesse dicendo, ma percepiva la sua bontà e non voleva allontanarsi troppo dall’uomo, a cui tra l’altro aveva portato un osso come dono di compagnia.
   <<Questo è per me? Uh… Gr-grazie>> pronunciò l’uomo, ancora senza mostrare i suoi tratti fisiognomici, causando in Belle un leggero fastidio che gli fece emanare un tenero abbaio con tanto di danza sulle zampe anteriori. Non capiva il perché non riusciva a vederlo, anche se si fosse messo dinanzi a lui, quindi si arrese e si stese di fianco contemplando la notte di pioggia. Qualche minuto dopo spaventò al sentire di una suoneria stridula e breve. L’uomo prese il cellulare e lesse il messaggio di Vampira Sbadiglia che diceva <<Sono rare le persone come te…>>, ma appena dopo aver letto quel messaggio una piccola fonte di luce si avvicino all’uomo e se ne impossessò, causando lo spavento del cagnolone lì di fianco che iniziò a ringhiare e abbaiare rabbiosamente. La luce scomparve un attimo dopo e l’uomo abbozzò finalmente un sorriso, illuminando il suo viso che era finalmente visibile: era un ragazzo semplice, dai tratti simpatici e soprattutto dolci, tanto da sembrare a vista un ragazzo puro e limpido.
   <<Ciao Belle, piacere mio, io sono…>> 

giovedì 22 novembre 2018

L’anima come specchio vivente sull’Uomo

Dinanzi ai suoi occhi c’era solo distruzione. Le pareti presero fuoco improvvisamente bruciando il parato che le copriva, passando lentamente da un viola scuro ad un nero carbone. Il fuoco era di colore azzurro e tendeva a fare maggiormente scena, pensò, in quanto il bruciarsi delle cose avveniva così lentamente da sembrare finto, nonostante il calore emesso dalle fiamme era soverchiante. La terra tremava e spaccava in due quel pavimento di legno sporco e ormai logoro dagli anni: il colore ingiallito e con non pochi aloni faceva presagire che lì ci fossero passati migliaia di scarpe, anche se si trattava di un luogo probabilmente inesistente. Sembrava la fine del mondo: le mura iniziavano a cedere, crollando su sé stesse, la finestra scoppiò improvvisamente in milioni di pezzi, con vetri che volavano ovunque a causa della smisurata potenza del vento, capace di spostare addirittura alcuni dei pochissimi mobili presenti. Il pavimento iniziava a fare spazio a delle vere e proprie crepe che continuavano ad allargarsi, mentre il calore delle fiamme stava iniziando a diventare soffocante. Attorno a lui, solo distruzione.

   «Devi andare», disse l’uomo elegante con la sua voce calma e tranquilla, comparendo al centro della stanza dal nulla e con un’aria spaventosamente sicura di sé. «Sarà qui a momenti.»
   Seguì il suo consiglio e corse verso la porta, senza guardare indietro, toccò appena la maniglia della porta che tutto ciò che c’era alle sue spalle scomparve nel nulla. Niente più distruzione, niente più fuoco, niente più quelle figure misteriose. Dinanzi a lui la stessa stanza, ancora integra ma sempre malandata. Al centro un divano di pelle nera, molto spazioso, con di fianco un lume la cui luce era una fiamma molto alta. La stanza era stranamente illuminata, nonostante non ci fosse la finestra a fare luce, ma soltanto quello strano lume: a primo acchito sembra una semplice lampada da lettura, ma che però invece della lampadina sfruttasse il fuoco, lo stesso fuoco azzurro che attimi prima bruciava quella stanza. Sentì il desiderio e il bisogno di sedersi su quel divano, anche se non soffriva nessun tipo di stanchezza. Intorno la stanza era sempre vuota, poco mobilio e appena qualche dipinto attaccato alle pareti, giusto per non rovinare la fantasia viola con sfumature magenta di quel parato, che, tuttavia con maggiore attenzione si poteva scorgere anche ad altre dal colore argento che rendevano il disegno decisamente più unico. Si sedette e constatò che fosse molto comodo, decidendo successivamente di sprofondarci con tutta la pesantezza del suo corpo. Sospirò e guardò il soffitto, perdendosi in quel bianco un po’ ingiallito.
 
 «Chi sei tu, come ti chiami?»
   «Io sono… L’angelo», disse la donna lucente con quella sua voce soave e delicata. «Siamo qui per una ragione precisa…», continuò prendendosi appena una pausa tra una frase e l’altra.
   «Come, un angelo? Qual è questa ragione precisa?» chiese il giovane osservando come la frangetta le coprisse leggermente quei suoi splendidi occhi.
   «Non posso dirti nulla ora, dovrai capirlo da solo. Ma sono sicura ci riuscirai, sei forte e ne sei sempre uscito. Ce la farai anche questa volta», rispose lei, mostrando i suoi occhi tremanti e lucidi. «Devi solo crederci.»
   Scomparve tra le sue braccia e al suo posto tantissime farfalle blu presero a volare intorno al suo viso, con una che si posò anche solo per un attimo sulle labbra, per poi scomparire nel nulla. Era la donna dei suoi pensieri più lontani, la riconosceva dalla luce che emetteva ogni volta. Ma non era solo quello, era anche più, ma non riusciva a capire dove e soprattutto quando: la sua mente era ancora vittima di quel luogo infernale.
   «E’ un po’ che non venivi a farci visita», disse una voce estremamente calda che colse la sua attenzione e lo riportò alla realtà. Si trovava infatti ancora su quel divano, senza sapere il motivo per il quale dovesse trovarsi lì e, soprattutto senza concepire il tempo che passasse. Si girò intorno ma non vide nessuno, tutto ad un tratto, improvvisamente, un gatto gli balzò sulle ginocchia, facendolo sussultare animatamente.
   «Oh cavolo gattino, mi hai fatto una paura terribile… Che ci fai qui? Da dove sei uscito?» disse mentre tentò di accarezzargli il manto di colore beige con leggere sfumature rosse.
   «Non è importante da dove sono uscito, ma bensì che io ti abbia trovato» rispose il gatto, cogliendo la sua attenzione che si mostrò come una smorfia di quasi terrore sulla sua faccia, quasi per indicare la conferma che prima non avesse fantasticato, ma bensì che l’avesse veramente sentito parlare.
   «Tu parli? Com’è possibile?», rispose deglutendo in modo quasi rumoroso.
   Il gatto iniziò a strusciarsi su di lui, soprattutto vicino al viso coperto di barba, poi iniziò a fare le fusa e a cercarsi forzatamente una carezza dalle sue mani. Lo accarezzò diverse volte, notando come gli piacesse e nemmeno poco: chiudeva gli occhi e si alzava sulle gambe posteriori per spingersi contro la sua mano. Sembrava che quel gatto desiderasse avere delle coccole da lui, quasi come se lo stesse aspettando da una vita intera. Ad un certo punto, dopo essersi goduto qualche minuto di dolcezza, il gatto si mise seduto sulle sue gambe al suo fianco, sul divano.
   «Qui tutto e possibile. Siamo in un posto dove è possibile di tutto. Io parlo, vivo, respiro grazie a questo luogo, dove altrimenti non avrei potuto» spiegò il gatto, accompagnando il discorso con uno sbadiglio degno della più totale stanchezza.
   «Siamo nell’aldilà? Paradiso o inferno?» si chiese il giovane, facendo riferimento alle parole dell’uomo elegante che gli ha spiegato di come quel bambino fosse un demone, mentre la donna lucente un angelo.
   «Quello che tu vorrai. Dipende tutto da te. Devi ricordare e superare questo luogo. Devi uscire da qui» risposte il gatto, spostando la coda da destra a sinistra con totale leggerezza.
   «Ma non so cosa fare, cosa ricordare e soprattutto come farlo! Ho paura di rimanere qui per sempre, nella totale indifferenza delle figure che sto incontrando. Mi dite tutti la stessa cosa, che devo fare tutto da solo, ma non so da dove iniziare! Ti prego gatto, aiutami, almeno tu!» e la sua voce si alzò di tono e cambiò anche suono, facendo notare di come un groppo in gola l’avesse accompagnato per tutto il discorso. Però poi continuò. «Tu, almeno, puoi dirmi come ti chiami?».
   Il gatto rimase impassibile dinanzi a quella che poteva definirsi una tranquilla sfuriata, anzi addirittura sbadigliò ancora e iniziò a socchiudere gli occhi, mentre con le unghie tentò di impastare sul divano. Si stava rilassando e a momenti sarebbe caduto su un lato per dormire, facendo innalzare non poco la rabbia del giovane ragazzo, che quasi immobile, continuava a fissarlo.
   «Leggi la targhetta che ho al collo», avanzò il gatto, appena dopo un sospiro.
   Si avvicinò al gatto, e con le nocche toccò il suo morbidissimo pelo beige. Prese la targhetta e lesse una semplice lettera, una “M”, che di certo non significava nulla in quel momento. La girò per vedere se ci fosse scritto qualcosa dietro, ma l’unica cosa che poté notare furono alcuni graffi: si trattava sicuramente di una vecchia targhetta, vecchia di anni. Iniziò quindi a chiedersi chi fosse quel gatto, del perché si trovasse lì e soprattutto da quanti anni fosse presente in quel luogo. La guardò ancora una volta e i suoi occhi si accesero, così decise di osservarla meglio e concentrarsi sopra. Nella sua mente iniziarono a comparire immagini familiari: due mani di bambino che accarezzavano quello stesso gatto beige, fermo lì su una sedia a sbadigliare e che di lì a poco si sarebbe guadagnato un ciondolo.
   «Ecco a te, ora sei ufficialmente il gatto della nostra casa!» disse il bambino con totale entusiasmo che coinvolse anche quel gatto, quasi sorridente che si strusciò lungo il braccio.
   L’immagine nella sua mente terminò e si ritrovo di nuovo in quel luogo, con quel gatto davanti che lo guardava esattamente come nelle immagini guardava quel bambino.
   «Una M, cosa significa Gatto? Ti chiami semplicemente M?» chiese, consapevole che la risposta sarebbe stato tanto vaga da non capirci nulla ancora una volta.
   «No, ho un nome completo, ma che non posso dirti. Dovrai per forza ricordarlo da solo. La M cosa ti ricorda, giovane?» chiese il felino iniziando a lavarsi le zampe e il viso.
   «Mamma, la M mi ricorda soltanto la parola Mamma, ma non credo significhi qualcosa…» spiegò il giovane ragazzo in preda ai dubbi e alla concentrazione. «Non sei mia madre, vero?» disse con un tono dubbioso e spaventato.
   Il gatto non avanzò parola, ma si bloccò per un attimo e iniziò a guardarlo insistentemente, in modo quasi inquietante. I suoi occhi cambiarono, da quel nocciola che rendeva le pupille così piene e calde, si passò ad una chiusura quasi totale, una fessura surreale e che, in quel dato momento, non facesse immaginare nulla di positivo. Si stiracchiò e con un balzo scese dal divano, avvicinandosi ad una porta che, fino a quel momento, non c’era mai stata. Salì sul mobile più vicino e iniziò a lavarsi di nuovo le zampe, non curandosi del giovane ragazzo che lo guardava insistentemente per capire cosa gli stesse dicendo. Capì che quella porta avrebbe portato da qualche parte, ma non sapeva dove. Si avvicinò, diede un’occhiata veloce al gatto e aprì, catapultandosi in un luogo completamente nuovo. La porta si chiuse con un particolare frastuono e il gatto rimase lì ad osservare la scena. Attorno al felino iniziò a levarsi della polverina bianca lucente e con uno sbadiglio così tanto desiderato, accompagnato da un mezzo sorriso finale, capì che il suo compito era ormai terminato. Si dissolse con l’immagine di quelle mani da bambino che lo accarezzavano e gli legavano quel ciondolo intorno al collo. La stanza era ormai vuota, il rumore del silenzio sembrava dare voce a quelle pareti così insignificanti. Il mobilio era l’unico protagonista di quella stanza, mentre l’unico movimento era dettato dal vento che spostava leggermente quelle tende viola sopra la finestra, comparsa dal nulla. Era cambiata ancora. Improvvisamente.
   Un urlo agghiacciante.




L’aria era rarefatta. Una sottile nebbiolina era presente in quella stanza. Le pareti non erano del tutto sane, ma continuavano a reggersi in piedi. La finestra che dava all’esterno, in realtà, non mostrava nulla di particolare, se non il vuoto totale, dato dalla luce incredibilmente accecante. L’uomo elegante era in piedi dinanzi alla finestra, amava osservare l’esterno. Aveva le braccia piegate all’indietro con le mani che si stringevano, a gambe larghe, come se stesse aspettando qualcosa. Una smorfia lungo il labbro inferiore e un movimento degli occhi. Aveva percepito la sua presenza.
   «Lui non ricorda chi sono…» era l’Angelo lucente, la donna bellissima. «Significa che mi odia ancora, vero?», chiese con la voce tremante, quasi spezzata.
   L’uomo elegante si girò in modo delicato. Aveva dalla sua un fascino particolare, perché sicuro di sé. La guardò negli occhi e anche i suoi iniziarono a tremare. «Non ti ha mai odiato, Angelo» disse con naturalezza e pacatezza. «Non potrebbe mai odiarti.»
   «Ha trovato il ciondolo, la lettera. È vicino…» disse in preda a qualche timore, un groppo in gola che continuava a darle fastidio.
   L’Angelo non si controllò del tutto, e senza fare smorfie o altri movimenti, fece scivolare una lacrima sul suo bellissimo viso, rigandolo in due parti. Il groppo in gola iniziò a farsi sentire nuovamente, ma riuscì a deglutire appena in tempo per bloccarlo. Rimase ferma lì, esattamente dov’era: non aveva la forza di muoversi perché era ancora del tutto scossa e fuori controllo. L’uomo elegante si avvicinò a lei con dolcezza e le asciugò la lacrima con il pollice, mentre il restante della mano l’accarezzava dietro l’orecchio. La guardò intensamente negli occhi, senza staccare lo sguardo. I loro occhi iniziarono a tremare, le pupille si allargarono così tanto da capire entrambi che ammirarsi era la cosa più bella che potesse esserci in quel momento e forse per sempre. L’accarezzò ancora in viso e le diede un bacio sulla fronte, cosa che avrà fatto tante volte nella sua vita, visto il riflesso condizionato di lei di lasciarsi baciare e abbandonarsi al suo petto. Si strinserò così forte che i vestiti per poco si riducevano a brandelli. Lui si avvicinò al suo orecchio per sussurrargli delle parole, lei chiuse gli occhi per godersele a pieno.
   «Sei l’unica che ha riconosciuto…» la sua voce diventò dolcissima e bassa improvvisamente, ma sempre molto calda e rassicurante.
   In preda ai brividi lungo la schiena, lei si strinse a lui ancor di più, abbandonandosi completamente al suo calore e al suo affetto. Rimasero così a lungo, dondolando leggermente in segno di dolcezza. Poi si guardarono ancora e si baciarono, come solo loro sapevano fare. Come solo loro avrebbero potuto fare.

Per il continuo, fatemi sapere se lo volete con un commento qui sul blog, oppure direttamente su ASK.fm al link CLICCA QUI. Lì potete anche farmi domande più specifiche, in caso le aveste. Sono lieto di poter rispondere. Inoltre fatemi sapere cosa ne pensate di questa "seconda parte". ^^

lunedì 19 novembre 2018

L'anima come specchio vivente sull'Universo


Di fronte a quello specchio era tutto così strano. Lo faceva spesso, guardarsi, imparare a conoscersi. Si avvicinava così tanto da guardarsi negli occhi e trovare qualcosa in quelle sue pupille, leggermente sottili perché non proprio contente di ammirare quella tristezza. Si ripudiava, lo stesso riflesso. Chiude gli occhi, li riapre, li richiude: erano di un verde bottiglia che via via diventava di uno smeraldo a causa della lucentezza e dal rossore di entrambi gli sclera, che accompagnavano il formarsi di piccole gocce di lacrime lungo la parete oculare. Queste si accumulavano con una prepotenza tale da sospendere qualsiasi azione autonoma come il respirare, per poi tutte insieme scivolare rigando delle guance paonazze, vibranti e sensibili. Gli occhi si guardavano ancora, nel silenzio più tombale, si scrutavano per trovare il coraggio di fare la prima mossa. Una mossa che non arrivò, rimanendo entrambi immobili lì a guardarsi in quel riflesso, per secondi, minuti. L’unico movimento che avveniva in quel frangente era lo schiantarsi di quelle lacrime amare sul maglione, macchiandolo più e più volte.


   Dopo l’ennesimo cambio di prospettiva, chiuse gli occhi e si chiese quale dei due fosse il riflesso di chi, chi dei due odiava veramente osservarsi e chi dei due, in quel momento, desiderava essere soltanto un’immagine. Non erano più lo stesso riflesso, non più. Erano un’unica cosa, seppur distinta in due diverse fazioni: quella spirituale e quella corporale. Quegli occhi iniziarono a muoversi autonomamente, così come le smorfie delle labbra che non corrispondevano più ai suoi movimenti. Non quelli reali. La mente immaginava e viaggiava da sola, eppure lui era fisso lì a guardare un riflesso che non esisteva più. Il buio colpì la stanza, i suoi occhi sembravano spenti e senza luce. Cercava invano di aggrapparsi a qualcosa che non trovava, brancolava nel buio con il panico di chi, improvvisamente, perde la vista. Non vedeva più nulla, nemmeno più le sue mani, la sua ombra o qualcosa di reale. Dinanzi a lui il nero più oscuro e cupo, contornato da un silenzio tremendamente assordante. Dei passi, gentili ma sicuri, ad un ritmo lento si fecero udire in lontananza. Le sue orecchie funzionavano, pensò, quindi non era morto. Si fermò e cerco di captare quel suono, per capire da dove venisse, ma era ancora troppo flebile. Poi smise.
   «Ciao» una voce calda, sincera e sicura di sé si fece avanti. «Sono da questa parte.»
   Iniziò a guardarsi in giro ma non vedeva nulla, tranne l’assenza stessa della vista. Era intrappolato in un limbo senza luce e che non gli dava la possibilità di guardare.
   «Segui il suono, non ti affidare agli occhi. Segui l’emozione, non affidarti al tatto. Segui te stesso, non l’immagine di ciò che desideri.»
   Rimase impassibile per un attimo, fermo lì in un posto imprecisato di un luogo senza luce. «Non riesco… Non so come si… fa…» si rese conto di riuscire a parlare, di potersi esprimere.
   «Respira. Prenditi un minuto di tempo. Tranquillizzati», accennò ancora la voce calda, che però non aveva un corpo.
   Decise di fare dei profondi respiri e rimase immobile lì. Per un momento sentì solo il rumore del silenzio, che condizionava anche il suo respiro, che per un attimo pensò di non percepire. Non c’era aria in quel luogo, non aveva realmente bisogno di respirare, di guardare o ascoltare. Si sentì perso, nel vuoto, in un posto che non era reale, ma cosa poteva mai essere? Era stranamente calmo, come se le emozioni non esistessero più. Non sapeva più identificarsi nella paura, nel dolore, nella vita: non sapeva come spiegarsi questa assenza di forza, di quel calore che abbiamo tutti noi all’interno del nostro corpo. Non sentiva nulla, nemmeno il nulla stesso e per un attimo pensò a quanto fosse in realtà magnifica quella sensazione: non fa male.
   «Non sentirti invincibile, non lo sei», disse la voce di quell’uomo, ancora una volta. «So perfettamente cosa pensi, cosa senti, anche se in realtà non puoi pensare e, soprattutto, non puoi sentire», spiegò con un tono tranquillo e flebile.
   «Sono mor…» chiese con voce spezzata.
   «Non esattamente. Non sei morto», lo interruppe quella voce con tono deciso. «Non posso che guidarti, ma se non fai ciò che ho detto prima, non possiamo proseguire» fece con tono autoritario.
   «Cosa devo fare? Come devo fare?» la sua voce aveva un tono così rassegnato da sorprenderlo.
   «Segui il suono. Segui l’emozione. Segui te stesso» gli indicò nuovamente la voce, questa volta facendo uso dello stesso e identico tono di prima, quasi come se a parlare fosse un robot o una macchina, in grado di non riuscire realmente a parlare, ma soltanto ad esprimersi con delle frasi fatte e prestabilite. Oppure era semplicemente bravo.
   Si concentrò, respirando a pieni polmoni. In quel dato momento capì che non riusciva ad immaginare e a ricordare più nulla, né chi fosse, né perché si trovava lì. Non sentiva paura, non sentiva timore: era sospeso nell’incredulità, come se fosse essenza.
   «Eppure sei un corpo, non credi?» gli spiegò la Voce, come se riuscisse a dare una risposta ai suoi pensieri, anche se questi non esistevano più in quel luogo.
   «Non riesco, Voce» spezzò lui con un tono rassegnato. «Non capisco cosa intendi dire. Hai detto che qui non esiste nulla, né pensiero né emozione, né suoni né materia. Probabilmente non esistono neanche le nostre voci.»
   «Ti stai avvicinando» disse la Voce con un tono beffardo, quasi come se stesse sorridendo maliziosamente. «Prenditi il tempo che ti serve, tanto qui non esiste nemmeno quello» raggelò con un tono pacato.
   Si zittì e decise di non parlare. Si concentrò su sé stesso, cercando di ricordare cosa potesse aver dimenticato. Immagini gli entravano nella testa, una figura femminile, un bambino, stranamente insieme, ma erano confusi. Continuava a cercare quelle figure e ogni volta sentiva un calore improvviso, ma flebile. Il tempo passava, ma lui non lo percepiva, ormai non percepiva nemmeno più il suo essere. Per un attimo ha pensato di non esistere più, come se non fosse nulla: non sentiva il suo corpo, i suoni, la vita, il gusto, i ricordi, le emozioni. Sentiva solo questo ronzio che non riusciva a classificare: era un suo pensiero, era la sua essenza o cos’altro? Improvvisamente, muovendosi nel nulla, vide quest’aura lontana e decise di raggiungerla: per un attimo sentì di aver un corpo, delle gambe, di avere un passo. Si guardò in basso, per concretizzare l’idea di essere qualcosa, e cominciò a correre sempre più veloce verso quell’aura. Si avvicinò a tal punto da sentire quel suono sempre più forte, quasi mistico, che avvolgeva quelle fiamme di colore blu.
   «Sono io, la Voce. Ci sei riuscito. Posso rivelarmi ora» accennò quest’aura di fiamme blu, che con movimenti artistici e spettacolari si racchiuse in una figura antropomorfa e piena di luce.

   Tutta l’assenza di luce di quel luogo impervio diventò accecante e si illuminò, mostrando finalmente i corpi e il luogo dove si trovavano: un’enorme stanza vuota, con pareti tremendamente disastrate, con cui applicato un parato dal colore viola che sfociava in sfumature magenta.
   «Benvenuto. Complimenti per essere riuscito finalmente ad entrare qui, ce ne hai messo di tempo. Sei riuscito a sentire il suono. Il richiamo del tuo essere altro da te.» 
   La sua figura era familiare, aveva un pantalone nero attillato, con una camicia blu notte e un panciotto con le sfumature del pantalone, mentre la cravatta era di una sfumatura particolare: ricordava il colore della luna sotto alcuni raggi di luce, mentre tendenzialmente era di un nero corvino. Il suo viso era leggermente familiare, ma dei fasci di luce nera, oscura, continuavano a nascondergli gli occhi. Era elegante, slanciato, le mani in tasca.
   «Mi riconosci?» chiese con un tono di voce sottile, quasi triste.
   «No, non riesco a capire chi sei, ci conosciamo? Quanto ci ho messo ad entrare qui?» chiese il giovane, ancora incredibilmente sorpreso di essere reale, di vedere le sue mani, il suo corpo e soprattutto di sentire di nuovo il suo essere vivo, fatto di emozioni, di calore, di freddo. Era tornato umano, ma era una sensazione strana.
   «Lo scoprirai chi sono, tranquillo. Ci hai messo ventisette anni, circa», confermò senza problemi. «Seguimi se vuoi uscire da qui» continuò l’uomo girandosi e muovendosi verso l’altro lato della stanza, dove si trovava una porta.
   Lo seguì senza fiatare e si trovo dinanzi a questa porta fatta marrone chiaro nei contorni e tanti vetri opachi al centro, sei per la precisione. La spinse appena e si aprì, ritrovandosi in quella stessa stanza di prima, questa volta da solo. La figura ben vestita era scomparsa. Al centro ci trovò uno strano bambino, con un viso molto dolce ma triste. Era biondo, alto per la sua età, con gli occhi che erano coperti anch’essi da quella strana luce oscura.
   «Ciao piccolo, che ci fai qua?» chiese con voce delicata, cercando di non spaventarlo. «Ti sei perso anche tu qui dentro?» continuò su quel tono pacato, senza però risultati: il bambino gli urlò contro in maniera spaventosa, si dissolse in polvere nera e fu risucchiata dalla porta di prima, che si chiuse con un tremendo frastuono.
   Egli non capì che stesse succedendo, ma un forte bruciore lo colpì nel petto e si accasciò a terra: il suo cuore si era appena diviso in più parti, per poi cicatrizzarsi nuovamente un secondo dopo. Non era un dolore fisico, non poteva esserlo. Quel bambino cosa gli aveva appena causato? Non riusciva a spiegarselo. Decise quindi di alzarsi e di tornare nella stanza di prima, cercando di fare affidamento sulle poche forze che si ritrovava, ma si accorse che era decisamente debole e ferito. Dieci, cento, mille tagli gli sono comparsi sulle braccia, sulle gambe, sul collo, ma non era l’unico problema: dentro di sé sentiva l’odio di quel bambino, la sua enorme tristezza, la sua condanna. Voleva liberarsene, voleva uscire di lì. Corse verso la porta e si ritrovò nella stessa identica stanza, ancora una volta. Questa volta c’era una finestra e l’uomo, la Voce di prima, era lì di spalle ad osservare l’esterno.
   «Chi è quel ragazzino? Chi sei tu? Dove cavolo ci troviamo? Mi date una cazzo di spiegazione per una volta? Volete farmi capire che diavolo sta succedendo? Sto impazzendo» urlò il giovane con tutta la forza che aveva dentro di sé, così tanto che alcuni di quei tagli cominciarono a sanguinare, mentre i suoi occhi e cedevano con le lacrime a quelle sensazioni che il bambino gli aveva appena passato.
   «È un demone. Un essere malvagio. Non puoi combatterlo», disse l’uomo elegante, guardando ancora verso la finestra e tenendo le mani in tasca, come se niente fosse. 
   «E allora perché mi trovo qui? Che devo farci? Cosa sono queste sensazioni? Questi tagli? Mi avevi detto che in questo luogo non esisteva nulla, perché ora devo subire tutto questo?!» disse sprezzante il giovane alzando la voce, ancora condizionata da quel pianto fuori controllo.
   «Ci troviamo qui per una ragione…» disse una voce femminile, dietro di lui. Una voce delicata, bella, soave. Si girò e la vide, in tutta la sua bellezza, nei suoi capelli castani raccolti, con un viso dolce e illuminante, gli occhi un po’ rossi per un leggero pianto e un sorriso che, da solo, riusciva ad annullare tutte quelle sensazioni appena ricevute dal bambino.
   Rimase incantato, non riusciva a muoversi o a proferire parola. Lei lo guardava negli occhi, era l’unica in quel luogo che non li aveva coperti da quella strana luce oscura. Era immersa in una luce bianca scintillante e il suo vestito non era da meno. Rimasero lì immobili a guardarsi per troppo tempo, forse, ma non era mai abbastanza. Nella sua testa, di nuovo, immagini di una figura femminile che forse aveva riconosciuto. Era lei.
   «Chi sei tu, come ti chiami?» chiese il giovane, perso in quel sorriso fuori dal mondo.
   «Io sono…»

Per il continuo, fatemi sapere se lo volete con un commento qui sul blog, oppure direttamente su ASK.fm al link CLICCA QUI. Lì potete anche farmi domande più specifiche, in caso le aveste. Sono lieto di poter rispondere. Inoltre fatemi sapere cosa ne pensate di questa "prima parte". ^^

sabato 17 gennaio 2015

Complessità dell'arte, il vero dilemma esistenziale


La via principale per entrare in se stessi è il pensiero, abbandonare ogni forma di dinamismo e riconoscersi in ciò che si è. Davanti alla finestra, ad osservare le immagini della realtà mostrata come un dipinto ad acquerello, si denota un senso di inadeguatezza, di disgusto. Fuori, l'incessante rumore dei chiacchiericci cittadini, i clacson e tutte le altre sfere nemiche alla quiete. Le luci nelle case colorivano la notte dando un maggiore senso di universalità - un mondo apparentemente vero - di costumi, superficialità, ipocrisia.























Il ticchettio dell'orologio era imperterrito, come se mai il silenzio potesse avere un momento per decantare la sua struggente melodia. La stanza era adibita per la mostra d'arte moderna, dove tantissime persone portavano in gloria oggetti dalla più naturale quotidianità, mentre altri ne decantavano la dubbia qualità artistica. Ad oggi, il concetto di arte si è così dilatato da caricarsi di tutte le denotazioni di indefinitezza, da parte di critici capaci di involversi in certi intellettualismi tendenzialmente indecifrabili e a volte di parte, che mostrano la natura falsamente morale di alcuni individui.
Si poteva definire alquanto ingiusto, immorale, ipocrita, il momento in cui si dava sfogo a certe vene intellettualistiche e poi prendere il cellulare e scattare la foto e condividerla sui propri social. L'incoerenza la faceva da padrona in quell'aria rarefatta, spaventosamente angosciante, di un semplice pezzo nel gigantesco puzzle del mondo. Quando si osserva un quadro o una scultura, bisogna fare attenzione alla riflessione che l'opera stessa ci propone; l'arte stimola il pensiero di quelle, ormai poche, persone capaci di prendersi la responsabilità di ciò che dicono.

Gli estetisti come Oscar Wilde professavano l'arte come obiettivo di vita. L'individuo, padrone della sua stessa esistenza, deve indirizzarsi al fine della ricerca del piacere. Una vita in relazione alla dimensione estetica, come se si vuol immedesimare nei personaggi delle proprie opere, ovvero l'uomo che ha il dono di plasmare a piacimento la propria identità, diventando una maschera di se stesso, auto-affermandosi ossessivamente. Per la religione invece il concetto è prettamente dissimile, pur usando le stesse parole. Ogni uomo è chiamato ad essere artista, compiendo se stesso con la propria vocazione individuale. L'artista possiede in sé la divina azione creatrice di Dio, quindi crea e ne mostra le bellezze... Le bellezze che distruggono l'anima. La stessa incoerenza della religione si professa nell'espressione della Genesi, quando spiega che l'artista - nel senso specifico del termine - non possa essere comprensivo di tutte le persone, che tuttavia, hanno il compito di essere gli artefici della propria realizzazione: deve farne un capolavoro dell'arte.

La mostra era terminata, portando con sé una prorompente aria di ipocrisia. Per alcuni è stata solo l'occasione di trasformala in qualche cuoricino o pollice in su.

L'ora indicava che mancava molto all'alba, e nessuna idea poteva essere migliore di quella di passeggiare in cerca di domande a cui non trovare nessuna risposta. Non mancava di certo lo sfondo dalla dubbia qualità culturale, ovvero il classico modo perpetuo di lasciarsi alle spalle le incertezze della vita. Le feste, la vita notturna, l'ostentazione della propria bassezza in frenetiche convinzioni come l'essere ubriachi, il fumare hashish, l'essere persone dalla confusa moralità e sessualità. Agire di conseguenza dimostrando la realtà delle proprie perversioni nascoste, dietro scuse banali, ma che comunque si accettano e si fanno accettare per evitare di incorrere in dubbi esistenziali. Le varie visioni intellettualoidi di individui che cercano ossessionatamente di apparire interessanti, o il cambiare punto di vista in base alla propria remissività. Il sentirsi inetto solo perché incapaci di abbandonare l'imbarazzante vita mondana e farsi, invece, influenzare da azioni surreali solo per sentirsi a pari merito con altri per la paura di essere giudicati e criticati. Il sentirsi disorientato, annaspare nel tentativo di ritrovare dei valori perduti, quegli ideali sinceri di cui si conosce l'esistenza. Una fiera circense. L'alienazione disperata di tali individui, con la desolazione che spesso accompagna scenari di sfondo già visti, cade nel mondo delle proprie vacue esistenze. Il perenne desidero di ritrovare se stessi, scoprire dove è nascosta la propria felicità, cercando conferme in altri che sono messi addirittura peggio. Il solito passaggio dal non accettare se stessi all'accettazione, fino allo sfumare di tale io nel vuoto. Si passa dall'essere inconsapevole all'esserlo, fino poi ad abbandonare tale consapevolezza e guardare la realtà, inabissando in essa.  Una realtà fatta dai fantasmi delle proprie paure, ma che di buongrado porta alla tristezza, più che al terrore. L'esser tristi per non riuscire a far equilibrare se stessi con il mondo, con il caos, con la realtà delle proprie insicurezze. Il sentirsi soli, pur avendo tante persone intorno.



Chi non ha il desiderio di conquistare e governare le masse? La gente è un agglomerato di insicurezze che assumono caratteristiche diverse da quelle individuali. L'acquisizione di una "capacità collettiva" che non si basa sulla propria eticità, esperienza o intelligenza, ma che fa parte della massa in generale che li fa sentire, pensare ed agire in modo diverso da come farebbero abitualmente da soli. Ed è qui che la parola ha il giusto potere, la parola detta da un leader che tendenzialmente si conferma poi essere vuoto egli stesso. Le masse sono facilmente suggestionabili, prive di ragionamento, sempliciste. Gustave Le Bon diceva "conoscere l'arte di impressionare la povera immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l'arte di governare".
Il Vaticano ormai sporco dei peccati commessi, i politici senza motivo esemplare di stare al potere, governano come idoli delle folle. Uomini di chiesa che sono più impegnati nel decidere quale sia la prossima giovane vittima dei propri peccati sopiti, più che argomentare le reali parole bibliche. Non sanno nemmeno più quale sia il proprio Dio, riconoscendo sempre più il proprio ego, messo da parte forzatamente per la chiamata del signore. Eppure si è esseri umani, egoisti e distruttivi, che cedono alle tentazioni. Il Berlusconismo con le dinamiche tipiche del neo-liberismo e dell'involuzione delle classi sociali, con la recente crisi dei ceti medi, del lavoro operaio e gli inquietanti quanto veri contorni assunti dalla povertà quotidiana. Ma anche le particolari trasformazioni culturali connesse al fenomeno della TV commerciale e pubblicitaria, la soggezione della stampa e dell'informazione giornalistica, la mancata riforma dell'amministrazione pubblica e quella di una perenne quanto longeva gestione corrotta del denaro pubblico e delle imprese medie private.

Eppure il tempo passava. Il silenzio era il nuovo protagonista della notte, che aveva come sfondo delle strade ora vuote e bagnate. Il marciapiede rifletteva ogni singola fonte di luce proveniente dai lampioni a forma sferica. Una pozzanghera d'acqua rifletteva il plenilunio, finché un passante non la distruggesse con il suo passare noncurante. Una prostituta appoggiata al muretto era immersa nei meandri profondi del pensiero. I suoi occhi decantavano un'effimera visione alternativa alla sua vita, sprazzi di bellezza che andavano vissuti per non incombere nel disequilibrio esistenziale. La sigaretta era appoggiata sulle labbra tremolanti dal freddo, il naso increspava, il fumo la rendeva come un dipinto da ammirare. Era splendida quanto illegale. No direbbe il Vaticano, è donna di facili costumi, Dio non approverebbe. No direbbe anche la classe sociale, è immorale. No direbbe l'ideale e sprezzante uomo comune, è poco dignitoso. Eppure l'ipocrisia non riesce a nascondersi bene, fornendo le basi desiderose di poter intraprendere una relazione notturna e segreta con la donna qui presente. Legalizziamola, così che potrebbe essere riconosciuto come lavoro dove le prostitute sono costrette a pagare le tasse ed aiutare la comunità. È vergognoso, eppure tutti una volta hanno fatto anche solo il pensiero di poterci andare con donne così. Tutto ciò che viene bandito dall'uso comune è oggetto di traffici illeciti come anche la droga o l'alcool, durante il periodo del proibizionismo. Tutto ciò che è illecito e segreto, attira le perversioni dell'uomo medio, che vince la sua soddisfazione andando contro i principi tabù del periodo e della società.

La notte sta morendo, facendo spazio all'alba. Il sentimento di gioia nel poter vivere l'arte delle piccole cose, come il farsi vivo del sole che illumina le strade, gli angoli bui e le tane dei topi. Finisce sempre con la morte di qualcosa. Tutta l'arte è divenuta chiacchiericcio, con piccoli momenti di appagante riflessione, poi la caduta nell'ipocrisia generale e miserabile.
Chi vuol essere felice deve dedicarsi alla ricerca sostenendola nei momenti alti e nei momenti bassi, pensando che la vita è sia dolore che benessere.

Anche io, il signor Spaventapasseri, come quasi la maggior parte dei sensibili, non mi discosto dal mondo descritto. L'arte è vita. Credo di fallito nell'aver dato spazio alle tenebrose realtà interiori, ragionando in silenzio su ciò che si è realmente: un essere umano.
L’unica mia certezza è nella fragilità. La stessa che dipinge l’alienazione del volto e la mondanità del corpo. L’apoteosi di una struggente persona sull’orlo della distruzione.



...Quando tu riesci a non aver più un ideale, perché osservando la vita sembra un enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l'abitudine, che non trovi, e l'occupazione, che sdegni - quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore - allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così... - Luigi Pirandello




venerdì 6 giugno 2014

Dilemma Dell'Insicurezza N° 26

Il locale era immerso in una mansuetudine invidiabile, si respirava aria docile e tranquilla. L’uomo, navigando nei pressi della scalinata di Montmartre, venne dirottato dall’incredibile pioggia scrosciante e dalla nebbia ad entrare nel locale per ripararsi. Le luci dei lampioni erano opache e morbide alla vista, la porta si lasciava alle spalle quella tempesta incredibilmente aggressiva. Si tolse il soprabito e il cappello, li appoggiò all’attaccapanni di legno faggio e si guardò in giro, sfoggiando il suo elegantissimo vestito nero che abbinato ai suoi gesti raffinati, creavano un sofisticato carisma da far impallidire. Il locale era immerso in zone buie con pochi strascichi di luce debole e fioca, che illuminavano quelle, ad occhio, comodissime poltroncine rosse che costeggiavano i vari piccoli tavoli rotondi. Il fumo nell’aere creava dei disegni artistici e si andava a fermare a qualche metro da terra, creando una nebbia che premeva ai lati degli occhi. Si sedette, si mise comodo e aspettò che arrivasse qualcuno per servirlo, era preso da una strana voglia di vino rosso. Dal palco provenivano i meravigliosi suoni della tromba e della voce di Chet Baker e della sua Jazz Band, con Almost Blue che copriva quella leggera aria malinconica e noir che si era creata. Arrivò la cameriera, con un corpo seducente e uno sguardo alla ricerca di attenzioni, di quelle che facevano perdere la testa. Ordinò del vino rosso, un Château Pétrus, la cameriera si allontanò dondolando il bacino, stretto in un attillato pantalone di finta pelle. Portò il calice alla bocca, bevve un sorso e si gustò tale opera con occhi socchiusi, immerso nel piacere e nella rilassatezza dell’atmosfera nubilosa. C’era poca gente in giro, un uomo che parlava all’orecchio di una donna, che dal vestito faceva intendere di essere lavoratrice delle strade di Rue Saint-Denis, che sorrideva maliziosamente alle probabili proposte spinte dell’uomo. Una donna però attirò l’attenzione e meritava sicuramente degli sguardi più intensi e contemplativi, a quel fascino di rara natura. Indossava un Christian Dior - new look rosso fuoco con uno spacco che faceva smorzare il fiato pure a chi, dal canto suo, era attratto dallo stesso sesso; un cappello fine, un neo sopra il labbro e un viso perfetto. La Brigitte Bardot con i capelli mori ondulati, che fumava da un raffinato fume-cigarette, la sua pelle d’avorio e faceva strage di cuori e di perversioni. Si portava alla bocca con delicatezza l’oggetto, le sue labbra sembravano accoglierlo con candore e morbidezza, il rossetto secco ne dimostrava la sicurezza e al tempo stesso la fragilità. Facevano l’amore in quel piccolo frangente di respiro, dove si scambiavano parti di loro stessi. La sua eleganza era innegabile e l’uomo ormai ne era perso, la sua ammirazione verso la dea sembrava non placarsi e dentro di sé la voglia cresceva maledettamente. Nel silenzio forzato, l’unico suono è il respiro di lei, il suo corpo irradia morbidezza assoluta e la sua pelle emanava il delicato Chanel n°5. Il cuore cominciò a martellargli in petto, il sangue si rimescolava veloce, dentro di sé, voleva sfamare il desiderio di passione.
Tutto rallentò vertiginosamente e si scolorì, dando un tocco Noir et Blanc. La cameriera versava dell’ulteriore vino in quel calice, cercando invano l’attenzione dell’uomo, mentre alla donna veniva servito il classico Dry Martini. La splendida canzone continuava la sua scalata verso la fine, i suoni si articolavano per accompagnare i suoi gesti e nei torbidi pensieri dell’uomo, accompagnavano la rinascita del piacere. Le sue dita avide di calore, i suoi occhi rapiti dal meraviglioso panorama della nuda schiena di lei, giocavano con quelle curve per accrescere la passione. Due mondi distinti, il pensiero e la realtà di quell’uomo. Si era creato un dualismo, una parte di sé si era dimostrata sciocca mentre l’altra è in attesa di abbandonarsi alla voluttà dei sensi. I suoi occhi ammiravano, la sua mente agiva, la sua immaginazione fece visita alla perversione, tutto il lato sensibile era diviso tra le due cose, che spaziavano veloci tra loro e mandarono l’uomo in uno stato catatonico di dubbi e insicurezze. L’uomo era l’uomo, l’animale era l’animale. Perdeva il controllo di sé e questa cosa lo infastidiva, ma il desiderio era troppo forte. Il rumore del letto e degli ansimi iniziò a divenire sempre più reale, gli occhi ormai non sapevano più quale fosse la realtà o l’immaginazione. La canzone finì, Almost Blue era stata la colonna sonora di quella assoluta manifestazione di debolezza. Si alzò di scatto e il calice si rovesciò, bagnando e sporcando la tovaglia di seta, che dal neve, passò ad un colore rosso sangue. Nemmeno quello attirò l’attenzione della dea, ancora lì, ferma a fare l’amore con il fumo intorno a lei. Improvvisamente, un grande applauso di quelle poche persone per l’arte che scaturiva quel l’uomo sul palco, mentre la cameriera sistemava il disastro del nostro uomo, che in preda alle proprie debolezze, decise di prendere il soprabito e scappare via, nella tempesta di pioggia. All’interno trovò un numero di telefono, che apparteneva sicuro alla seducente cameriera, che in quei quindici minuti cadde in preda alle sue di debolezze, persa nel fascino del nostro uomo, persa nei suoi gesti delicati.
Quando la porta si chiuse alle sue spalle, la donna con un battito di ciglia lento, passò lo sguardo a quella porta ormai chiusa, smorzò un sorriso tenue e sottile. Aveva vinto, poteva segnare l’ennesima preda sulla sua frivola insicurezza. 


"Tutte le persone affascinanti hanno qualcosa da nascondere: di solito la loro totale dipendenza dall'apprezzamento degli altri."


domenica 30 marzo 2014

Dilemma Dello Schizofrenico: D

Le luci si affievolirono e il pubblico diventò quasi invisibile, a malapena si udiva qualche chiacchiericcio. Cosmo entrò in scena, nella sua tenuta mascherata, con un passo flebile, armonioso e danzante. Indossava abiti dai colori mischiati, un gilet metà verdi a quadretti blu e l’altra metà blu a quadretti verdi. Un pantalone molto largo color viola perlato con tasche pieno di oggetti di scena dentro. Le scarpe erano classiche, ma rese colorate e malridotte per fare scena, nascondevano degli elastici per rumoreggiare ad ogni passo e far in modo che la gente ridesse del suo modo di muoversi. Aveva un viso tondo e strano, che mascherava con del trucco bianco che sembrava la neve candida, la bocca di un blu mare che segnava il grande sorriso con un contorno nero per definire il tutto in meglio. Aveva messo un rossetto dello stesso colore del trucco, così che qualsiasi forma avesse preso il suo viso, dimostrava sempre quel gran sorriso artificiale e anche decisamente finto. Il naso rosso a palla che se premuto faceva un allegro fischietto, un trucco nero attorno agli occhi da cucciolo che aveva, lo facevano rassomigliare ad un panda e mettevano i risalto i suoi occhi verde bottiglia che con la luce sembravano splendenti, ma che in realtà nascondevano una lieve malinconia. Lo spettacolo era nato per costruire sorrisi e risate sulle facce delle persone e si servivano di Cosmo perché lui riusciva a rappresentare ciò che in realtà avrebbe voluto anche lui stesso. Sorridere.

Lo spettacolo finì, le luci abbandonarono il teatro e un applauso degno del più grande costruì un suono che allietarono l’animo di Cosmo. Quasi si sentiva il vento che le mani creavano nel loro muoversi prima di emettere il suono più importante in quel momento. Era lì, inchinato degnamente, ad ascoltare quel suono che per qualche attimo avevano dato aria alla sua malinconia, ma durò poco più di qualche minuto. Tornò nel camerino, uno stanzino piccolino con un grande specchio pieno di lampadine a farne da contorno. Era parecchio in disordine, c’erano tanti vestiti di scena sparsi lì buttati per riprenderli subito e indossarli prima di ricominciare a vivere un nuovo attimo. Il signor Spaventapasseri, il signor Tenebra, l’umile musicista, l’affascinante principe e tantissimi altri che si aveva difficoltà a contarli. Una lampadina intermittente, lo specchio con qualche crepa all’interno. Tutto sembrava già sfruttato da molto tempo, c’era qualche granello di polvere qui e là e un phon, per acconciarsi i capelli biondi e mossi ogni qualvolta doveva entrare in scena. Iniziò a struccarsi, perché doveva cambiare scena e personaggio, e nel mentre notò che il suo occhio da verde diventava oscuro e pieno di odio. Chiuse gli occhi e provò ad entrare nel suo essere, nel suo mondo vero.
Si trovò in una stanza bianca senza fine, decisamente illuminata, tanto che i suoi occhi dovettero abituarsi prima qualche minuto e poi riprese a vedere. Il giovane non immaginava che cosa gli altri avessero in mente, ma lui aveva già deciso di rinunciare e tornare indietro. Intuì che qualcosa stava accadendo, qualcosa di strano stava capitando. Oltre l’immaginazione. Qualcosa che sa di già visto, già sentito, qualcosa che c’è sempre stato ma se ne rendeva conto solo in quel momento. Un uomo non può farsi travolgere da cose astratte, deve scovarle, capirle e combatterle. I motivi per cui Cosmo cambiò idea e partecipò a quell’impresa erano meno evidenti di quelli che sembravano. A quello sguardo così deciso, il signor Spaventapasseri, il principe, e tutti gli altri si precipitarono a fermarlo nella sua furiosa decisione. Di lì a poco li avrebbe uccisi e distrutti tutti quanti, ormai futili, privi di senso. Finalmente qualcosa si mosse dentro di lui, una forza repressa che era quella del suo animo, così forte che davanti ai suoi occhi tutto si stava autodistruggendo. Le mura volavano via trascinate da un tornado potente, il pavimento ondulava forte e si spaccò in tantissimi pezzi. Il suo sorriso inquietante rimase immobile e i suoi occhi impassibili non sbattevano le palpebre, perché dentro di lui qualcosa era cambiato. Finalmente.

Un corridoio completamente buio, gelido e spaventoso. L’accendino verde era l’unica fonte di luce e mostrava le pareti bagnate e piene di edera, a terra c’è dell’acqua ormai pesante e densa di fango. Faceva fatica a camminare, le sue scarpe erano poco adatte, ma erano più deboli della sua forza in quel momento, decisa più che mai nel suo intento. In fondo, una porta che per aprirla bisognava tornare un attimo bambini, riscovare la bella spensieratezza, perché lì dentro si nascondeva qualcosa che lui aveva perso da tempo e che si era rinchiuso in quel luogo molto remoto per stare lontano dal dolore e dalla paura. Da bambino Cosmo andava sempre in giro vestito da supereroe, Batman e Spiderman erano i suoi preferiti e indossava sempre queste maschere per nascondere se stesso e mostrarsi più forte agli altri. Aveva già paura, tremenda paura di come col tempo la cosa si sarebbe evoluta nel modo peggiore e lui, angelo tenero e buono, sarebbe scomparso nei profondi meandri di quella tenebrosa paura. Prima però era spensierato, un bambino come tanti. Salutava tutte le persone che camminavano con un dolcissimo buongiorno, anche se non le conosceva. In quei momenti era sereno e felice e nel ricordarlo, qualcosa si attivò dentro di lui. Era la voce di un bambino così felice e sorridente, senza il minimo pensiero. Un sorriso si smosse e la porta si aprì. Nel buio più totale, c’era un solo angolo illuminato. Lì una capigliatura bionda era seduta con la testa tra le gambe, chiuso a riccio, tremolante e spaventato. Pieno di graffi, ferite, era pallido, occhiaie enormi, era orribile, spaventoso, incredibilmente inquietante. Cosmo sente una fitta forte nel petto, un dolore che lo stramazza a terra in preda ai lamenti più feroci. Il ragazzo pallido si stringe ancor più le gambe, con singhiozzi forti e profondi. Tempo prima era un angelo bellissimo buono e senza odio, ora invece eccolo lì, rinchiuso nella sua stessa paura. Cosmo stramazzato a terra perse i sensi, iniziò a sognare un mondo completamente diverso da quello in cui viveva. Tornò ad aprire gli occhi e lì davanti a lui, c’era un pagliaccio steso a terra, completamente sporco di fango. Aveva freddo e si raggomitolò quasi arrendendosi.

Uno sguardo alla porta più in là, il signor spaventapasseri era sulla soglia e aveva visto tutta la scena. Cosmo si alzò di fretta, calpestando la mano del povero pagliaccio e correndo verso la porta con furia, mentre il signor Spaventapasseri chiudeva e si lasciava alle spalle la stanza, ancora una volta pronunciando qualcosa. L’ennesima. Un grande tonfo e tutto tornò buio.

<<Sei anche tu una maschera.>>

Un profondo applauso invase la stanza. 



Interludio profondo.

Ogni attimo, ogni momento..
Un sorriso falso si prende gioco di me..
Non puoi capirlo tu che di me ti nutri..
Non percepisci la profonda malinconia..

Ne puoi vedere la tristezza?
Ne puoi mostrare la tirannia?
Mi dite di sorgere e mostrare la luce..
Ma come sole sono ormai spento..

Come può un bruco saper volare..
Se prima il suo bozzolo non si schiude..
Ma è lì da tempo immemore..
Mi correggo, è spaventato..

Potrei muovere la luna..
Disegnare stelle..
Ma del mio sorriso e del mio fardello..
Non sono più gravido..

Tutto ciò che è profondo ama la maschera, e le cose più profonde nutrono addirittura odio per quel che è immagine e somiglianza. 

martedì 12 novembre 2013

Dilemma del Moralista n° ?

Pareti di un delicato color crema, ornamenti fiabeschi fatti con gesso di prima qualità, illuminata da una moltitudine di candelabri antichi, la stanza vezzeggiava agli occhi dei presenti, un Principe di una famiglia nobile di alto bordo e due giovani serve africane. Il principe se ne stava sempre seduto, volgendo lo sguardo ad una delle due serve, di cui il corpo sembrava fosse arte pittorica del grande William-Adolphe Bouguereau. Quando udì spalancarsi la porta alle sue spalle, si voltò leggermente per dare un’occhiata alla donna che entrava, e notò che fosse la figlia della famiglia nobile francese ch’era promessa sposa, a lui, che desiderava principalmente dare adito alle fantasie erotiche e puramente animalesche che albergavano nella sua mente. Non disdegnava affatto la sua sposa, giovine fanciulla nobile, origine francese, dai capelli color oro e un corpo sublime, sembrava esser uscita dall’opera Un bar aux Folies Bergère di Édouard Manet. Si fermò sulla soglia, esitando, aspettando un gesto da parte del suo fedele sposo, il principe, il quale invitò la fanciulla a sedersi. Ella, con passo danzerino, si avvicinò al divano, fatto di legno massello, cuscini in piuma morbida, tessuto imbottito e rivestito di uno splendido color oro. 
La serva si avvicinò con passo felpato, aiutò la nobile fanciulla a togliere il soprabito, ancora umidiccio per la pioggia e il temporale che devastavano il lato esterno di quella quiete, accompagnata da musica classica che ricordava vagamente Lo schiacchianoci di Tchaikovsky. Il giovane principe scrutò la splendida serva prima di dirigere lo sguardo alla sua amata, che salutò con un fine baciamano, facendo arrossire la fanciulla. I due scambiavano affascinanti sorrisi, la fanciulla irraggiava soddisfazione e annuiva compiaciuta ad ogni singola parola che proferiva dal carisma del principe, mentre questi si alzò e prese qualcosa da bere, cercando di non distogliere lo sguardo dal corpo della serva. Aveva una gran voglia di guardarla nel suo unico splendore e possederla, ma temeva che la fanciulla sua sposa se ne accorgesse. Versò due calici di vino rosso, per accompagnare la musica e il corteggiamento per la sposa, che si limitava solo a ricavare vita dal sorriso del principe, di cui lei, ormai era completamente persa. Assisteva silenziosa alla conversazione dei due, la giovane serva, si congedò con un inchino e si allontanò, mentre il principe era assorto nei scompigli mentali del suo essere animalesco e ascoltava in silenzio mentre la nobile fanciulla esponeva confusamente vari pettegolezzi di corte, reagendo soltanto ad uno sporadico sorriso e cenno di assenso. Aveva seri dubbi su come comportarsi, l’essenza della sua morale era la nobiltà, la tenacia, la forza, con cui ciò che è utile è bene. Si scusò con la fanciulla, dichiarando di aver un bisogno corporale e si alzò e allontanò dalla stanza alla ricerca non di un bagno, ma della giovane serva. 
Quando raggiunse la stanza, trovò la porta aperta e nessuna traccia di occhi curiosi, così vi entrò e bloccò la serratura, portando con sé la chiave d’ottone, infilata nella tasca della giacca. Fece una frettolosa perlustrazione per la stanza, ma la serva sembrava introvabile, finché non udì un leggero cigolio nella stanza adiacente dove si precipitò come un forsennato. La stanza era quasi buia, illuminata solo dai lampi che assalivano le finestre e le mura, si nascondevano pochi mobili antichi e deteriorati dal tempo, un letto piccolo e mal ridotto che dava poche gioie alla schiena della serva, che nel contempo, era lì impaurita e silenziosa, ma bella ed eccitante. 
Essere dalle mille sfaccettature, posseduto dal singolo pensiero animalesco. Preludio delicato, misero, quasi inesistente della sua voce. Generalmente attratto da tutto e da niente, il suo cervello iniziò a tempestarsi di quelle immagini crude, violente, ma che avevano aperto le porte dell'amore, della passione. La povera serva era di una maliziosa quanto innocente espressione di confusione che cercava di dare messaggi ambigui delle proprie sensazioni. Il suo desidero frivolo lo faceva sentire forte, gli dava la possibilità di essere decisamente superiore a lei e di farne ciò che voleva, infondo, la povera non aveva mai avuto possibilità di esprimersi, in quanto giovane. Il suo profumo lo inebriava e la sua piloerezione era così morbida da sembrare leggera piuma, delicata. Era febbrilmente eccitato e preso di passione, voleva dargli dimostrazione di ciò che potevano fare le loro carni, così cercò di possederla. La serva inizialmente contrariata, diede piano l’approvazione al proprio animo, contrariato dalla moralità del Ressentiment. Sentiva il suo godimento come la nona sinfonia del Ludovico Van, la trasportava in audaci ed imperterrite urla di passione. La luna si trasformò nel satellite più bello che abbia mai visto, e tutto intorno a loro cambiò. Il temporale s’interruppe improvvisamente, tutto trovò pace. L'innocuo sorriso scomparve e al suo posto si esibivano smorfie nervose di sconosciuta entità, il Principe, vezzeggiava attentamente il suo corpo, cercando i punti precisi per dare il giusto epilogo. Ormai di fronte aveva solo un ammasso di carne, un essere antropomorfo dalle bellissime curve. Di lì a poco sarebbe tornato dalla fanciulla sua sposa, a pre-configurare una nuova sinfonia, diversa da quella anzitempo prevista e da poco consumata. Portò alle sue labbra il calice di vino, fresco, bevve, smaliziando la giovane con un nuovo sorriso. La sua anima era andata via, boccheggiando leggere particelle di ossigeno. Era libero, finalmente.